Tribunali e richieste d’asilo: il ritorno del processo inquisitorio?

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Entrando in un’aula di tribunale durante un ricorso per richiesta d’asilo ci si accorge subito come qualcosa non funzioni: manca una delle parti, gli avvocati e le avvocate sono in silenzio, i e le giudici sembrano un’accusa frettolosa. Stiamo forse tornando al processo inquisitorio? E se sì con quali conseguenze nei confronti dei e delle richiedenti asilo LGBT+?

C’è stato un periodo in cui chi era accusato di aver commesso un reato veniva condotto di fronte a un o una giudice che non rappresentava parte terza ed imparziale nei confronti dell’imputato/a ma era anche un o una giudice inquirente, con il compito di dimostrarne la colpevolezza. Il/la giudice quindi conduceva l’istruttoria e acquisiva le prove che avrebbero poi avuto una rilevanza fondamentale rispetto alle dichiarazioni fatte in dibattimento. In questo contesto l’avvocato/a dell’imputato/a, se previsto, poteva intervenire solamente alla fine delle domande con delle considerazioni conclusive. Nel metodo inquisitorio c’era quindi una forte asimmetria: una delle parti, quella dell’accusa, aveva una posizione di potere nei confronti di chi veniva imputato.

Se oggi si entra in udienza per un ricorso presentato da una persona richiedente asilo a cui è stata diniegata la richiesta di protezione internazionale si potrebbe avere il dubbio di essere tornati al sistema inquisitorio medioevale. Certamente, non abbiamo un’imputazione ma un ricorso per il riconoscimento di un diritto. Tuttavia, guardando le posizioni delle parti, si ritrova lo stesso rapporto di asimmetria presente durante il processo inquisitorio.

Quando riceve il diniego alla propria richiesta di asilo dalla commissione territoriale, si hanno 30 giorni per trovare un avvocato o un’avvocata con cui presentare ricorso e depositarlo. L’udienza in tribunale sarà programmata per un periodo variabile tra i cinque e gli otto mesi.
Il giorno dell’audizione il o la richiedente asilo si deve quindi presentare in tribunale con qualcuno che traduca, rintracciare il/la proprio/a avvocato/a e insieme attendere l’udienza. Ciascun/a giudice normalmente ha un’ora di tempo programmata per ogni audizione. Spesso non si tratta di un /a giudice togata ma di un/a giudice onorario/a che, pertanto, è pagata a gettone per ogni udienza compiuta.
Non immaginiamoci un’ampia aula di tribunale quanto piuttosto un piccolo studio, con una scrivania, un computer, molte carte, con il/la giudice seduta da un lato, ricorrente e traduttore o traduttrice dall’altro e avvocato o avvocata dall’altro capo, tra il/la giudice e il traduttore o la traduttrice.

Nell’ora a disposizione bisogna calcolare il tempo necessario per le procedure tecniche iniziali, come l’apertura dei fascicoli sul computer, l’inserimento dei dati dell’interprete, per chiarire al/la richiedente asilo il significato dell’udienza, per la scrittura al computer delle risposte date (non si tratta sempre di esperti dattilografi), per le domande volte a chiarire il narrato della persona ricorrente, e soprattutto il tempo per la traduzione dell’interprete, che raddoppia tutti gli interventi.

L’audizione si svolge quindi in tempi strettissimi, al/la richiedente asilo viene chiesto di confermare o meno quanto detto di fronte alla commissione territoriale, pochissime sono le domande che il giudice o la giudice dedica per ricostruire effettivamente la storia. Nella quasi totalità dei casi, l’udienza si svolge senza la contro-parte, la commissione, cosicché il/la giudice si ritrova a fare domande che vaglino la credibilità e la veridicità del racconto del/la ricorrente, che lo mettano alla prova, uscendo dalla terzietà, posizione che sarebbe tenuto ad occupare.

E chi difende il ricorrente in tutto ciò? Dovrebbe intervenire tutelando “in ogni sede, il diritto alla libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando, nel processo, la regolarità del giudizio e del contraddittorio” secondo quanto prevede il l’art. 1 del codice forense. Dovrebbe, perché in realtà, può succedere come nel Tribunale di Venezia, dove Presidente del Tribunale e Ordine degli Avvocati si accordano perché l’audizione venga “condotta esclusivamente dal Giudice o dal GOT (ndr Giudici Onorari del tribunale non togati) delegato, senza l’intervento dell’avvocato”. L’avvocato o l’avvocata quindi, se ne deve stare zitto/a, ad una lato della scrivania, almeno fino a quando non siano finite le domande.

Un celebre giurista, Alessandro Giuliani, quando parla di questa asimmetria aggiunge un altro elemento alla posizione di potere di una delle parti: l’introduzione di una razionalità formale, calcolante, definibile come burocratica, dove non c’è spazio per la dialettica tra le parti del processo, esiste solo un percorso per raggiungere la verità e la soluzione della contesa, fatto di procedure, documenti e allegati da presentare secondo un rigoroso ordine. Un rito da rispettare minuziosamente in un sistema che premia il numero di udienze fatte facendo guadagnare di più il giudice all’aumentare di queste.

Ed ecco che se rientriamo nelle nostra aule di tribunale (durante il colloquio per una richiesta d’asilo) troviamo un/a giudice preoccupato/a a scrivere le risposte su un computer, chino/a su una scrivania laterale che non guarda nemmeno in faccia le persone con le quali sta interagendo, nella preoccupazione di mettere le spunte nei punti giusti e procedere alla prossima udienza, più attento a completare le formalità amministrative che quelle garantistiche.

Di fronte a tutto ciò che spazio c’è per la vulnerabilità propria degli individui? Come può davvero narrarsi il/la richiedente asilo LGBT+?

Deve nascondere la sua vulnerabilità per mostrare la vulnerabilità attesa dal giudice o dalla giudice. In un certo senso deve essere meno vulnerabile per dimostrare la propria vulnerabilità, mettendo da parte quella più autentica e performandone una più stereotipata. Non ci sarà spazio per il silenzio della timidezza, della vergogna e dalla paura interpretabili come semplici silenzi, ma dovranno vedersi lacrime, voci tremanti che accompagnano racconti completi corredati di cliché e luoghi comuni.

Il/la richiedente asilo deve riuscire a raccontare cosa significa essere omosessuale in un Paese che non gli/le ha mai dato questa possibilità. Deve raccontare cosa significa avere finalmente la possibilità di essere sé stesso/a. Deve esibire i propri rapporti affettivi e raccontare come funzionano i propri rapporti sessuali. Deve spiegare ad un o una giudice che cosa significa essere bisessuale o transessuale, e che no, non è solamente un’idea che prima o poi potrà cambiare.

Alla sua vulnerabilità invece, quella vera, non sarà dato spazio. Pena? Il rigetto.

Giulio F.
G.a.G.a. Vicenza