In tribunale e in commissione, con le parole giuste

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Come e quanto influisce la mancanza di conoscenza di lessico specifico LGBT+? Come preparare i e le richiedenti asilo SOGI ad affrontare l’audizione in tribunale o in commissione territoriale? Quali criticità emergono quando la narrazione viene tradotta da una persona che non conosce le specificità dei vissuti?

Chi ha avuto la possibilità (o il dispiacere) di leggere alcuni verbali di audizioni a richiedenti asilo LGBT+ ha potuto osservare come le scarse o addirittura assenti conoscenze del mondo LGBT+ da parte di giudici e commissari/e producono spesso domande intrise di stereotipi e pregiudizi, spesso disumanizzanti o semplicemente fuori luogo.

Alcuni esempi: non è raro che al o alla richiedente asilo SOGI vengano chiesti dettagli sul primo rapporto sessuale, se lo abbia gradito o se abbia provato dolore durante la penetrazione. Ancora, accade che una persona eterosessuale perseguitata nel Paese d’origine per avere avuto rapporti sessuali con una dello stesso sesso sia trattata come omosessuale dal/la giudice o commissaria/o, che così facendo nega la sua identità. Altre volte le memorie non sono considerate credibili per il semplice fatto che il/la richiedente asilo omosessuale non rispecchia lo stereotipo del gay effemminato o della lesbica mascolina. Infine, nei casi peggiori, se il/la richiedente asilo ha subito una violenza sessuale,cosa purtroppo non farà nei vissuti e narrati de/delle richiedenti asilo, vengono chiesti i dettagli della stessa: il numero di aggressori, la descrizione dettagliata dei fatti, il livello di sofferenza provato dalla vittima. Nel raccontare tale vissuto la persona è costretta a rivivere il trauma, diventando fragile o addirittura avendo crolli emotivi davanti a un/a giudice o un/a commissaria che per portare a termine l’intervista proseguono, scavando sempre più a fondo.

Spesso le persone richiedenti asilo, per poter parlare del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere utilizzano vocaboli e concetti che non sempre incontrano il nostro linguaggio e il nostro sistema simbolico, con l’effetto che la possibilità di ricevere un esito positivo risulta notevolmente ostacolata. Non è raro, infatti, che i/le richiedenti asilo SOGI, al momento della commissione, non abbiano mai avuto contatti con le comunità LGBT+, né in Italia, né nel loro paese d’origine. Le narrazioni delle storie migranti aderiscono alle esperienze vissute senza passare attraverso la mediazione delle categorie occidentali. Il loro linguaggio si sviluppa su un registro affettivo-sessuale che non sempre utilizza gli strumenti concettuali con cui in Europa e in Italia vengono descritti il genere e la sessualità. Per questo motivo, nelle memorie delle persone richiedenti asilo, l’omo-bi-transessualità non sempre è nominata in quanto categoria identitaria, bensì come riferita a relazioni, affetti o atti sessuali con persone dello stesso sesso.

La mancata o scarsa conoscenza delle reciproche culture e la barriera linguistica tra richiedente asilo e giudice o commissaria/o possono rappresentare quindi un ostacolo difficilmente sormontabile. Per ovviare a questa problematica, durante le audizioni è presente un mediatore o una mediatrice.
Il momento dell’audizione non si configura infatti come un colloquio diretto, ma come un racconto tradotto e mediato da una terza persona.

In particolare, il traduttore o la traduttrice per l’intervista presso la commissione territoriale viene selezionato/a da un’agenzia esterna e il/la richiedente deve affidarsi senza conoscerla/o. La norma vuole che Si possa chiedere un cambio di traduttore o traduttrice in qualsiasi momento dell’audizione, ma ciò avviene raramente, a causa soprattutto dello stato emotivo e dalla pressione psicologica. I traduttori e le traduttrici raramente sono figure professionali, formate alla complessità dell’esperienza della mediazione di racconti di vita così intensi. Sono, nella maggior parte dei casi, persone provenienti dallo stesso paese d’origine del/la richiedente asilo che hanno semplicemente acquisito un buon livello linguistico italiano. Altre volte, si tratta di studenti italiani con una buona conoscenza dell’inglese o del francese (standard, non necessariamente di quello parlato dai/dalle richiedenti asilo). Ne consegue spesso una traduzione (verbalizzata) alterata e compromessa.

Nello specifico delle audizioni delle/dei richiedenti asilo LGBT+, anche il traduttore e la traduttrice potrebbero non conoscere il linguaggio specifico con cui ciascuno parla del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere, e non comprendere quindi parte del lessico utilizzato dalla persona richiedente asilo.

Un esempio semplice, ma ricorrente, è quello dei pronomi inglesi usati dai richiedenti asilo gay, provenienti da paesi anglofoni. Questi infatti non distinguono tra he/she e him/her (lui/lei rispettivamente in nominativo e accusativo), ma tendono a riferirsi sia alle persone di genere maschile sia a quelle di genere femminile con she/her (lei).

Nel caso si tratti del narrato di un richiedente asilo gay, quindi, questo si riferirà al suo compagno con il pronome femminile dell’inglese standard conosciuto dal traduttore o dalla traduttrice. In realtà, nell’inglese del richiedente, she/her è un pronome neutro utilizzabile per entrambi i generi.
Altro esempio è quello dei termini “gay” e “transgender” o “transexual”. Questi termini della lingua veicolare spesso subiscono una variazione lessicale nell’inglese della persona richiedente asilo che produce parole come “game” al posto di “gay” e “transition” invece di “transgender” o “transexual”.

Intervenendo preventivamente e fornendo gli strumenti adeguati a chi traduce in commissione o in tribunale, si potrebbero diminuire o evitare parte dei fattori che contribuiscono ad un esito negativo. Il linguaggio e la mancata preparazione ai temi legati all’orientamento sessuale e l’identità di genere da parte di chi ha il compito di giudicare una domanda di asilo rimangono ostacoli spesso insormontabili.

Nicola N.
G.a.G.a Vicenza