I diritti LGBT+: che cosa sono di preciso?

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Spesso si sentono menzionare i “diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, trans, intersex, queer”, senza avere una precisa idea di cosa comprendano e come si sia arrivati a formularli nella veste attuale. Con questo articolo, senza pretesa di completezza, si vuole iniziare a dare qualche piccola nozione d’uso.

In una società che si considera aperta e pluralista, tutelare efficacemente i diritti di una minoranza (pur numericamente cospicua) come quella LGBT+ appare giuridicamente doveroso – al di là di facili strumentalizzazioni o polemiche estranee al diritto – e l’evoluzione della giurisprudenza dei tribunali sovranazionali, i contributi di autorevoli studiosi, le esperienze di numerosi Paesi, depongono in tal senso.

Solo molto tardi, a livello mondiale, si è raggiunto un consenso sufficiente in seno alla comunità internazionale per allargare l’elenco dei diritti umani fino a comprendere espressamente questa “nuova” categoria. Il tema in passato era considerato divisivo, di scarsa rilevanza o non meritevole di alcuna attenzione, e pertanto tenuto ai margini del dibattito pubblico.
Tuttavia si tratta di diritti solo apparentemente di “nuova generazione”: a ben vedere discendono dai tradizionali diritti di dignità umana, eguaglianza, libertà, riservatezza, coscienza, espressione, associazione e altri ancora, sono diritti nuovi solo in senso cronologico perché sino ad oggi disconosciuti o assicurati parzialmente in molte società, e non perché strutturalmente o ideologicamente innovativi. Più semplicemente, al lento mutamento di paradigma socio-culturale si è accompagnato quello di tipo giuridico.

Il grande passo, a livello internazionale, si ha con una risoluzione del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU – datata 17 giugno 2011 e intitolata “Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere” [ris. A/HRC/RES/17/19] – che per la prima volta estende alle persone LGBT+, in via interpretativa, la protezione offerta dal diritto internazionale ritenendo le loro istanze implicitamente salvaguardate dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e da altre convenzioni promulgate nel corso dei decenni.
A questa risoluzione ne segue una seconda nel 2014 [A/HRC/RES/27/32] e una terza nel 2016 [A/HRC/RES/32/2], quest’ultima in particolare ha permesso di nominare un esperto indipendente delle Nazioni Unite in materia di questioni relative a orientamento sessuale e identità di genere, con compiti di monitoraggio e propugnazione di un avanzamento di tutela.

Su posizioni analoghe si è allineata l’Unione Europea (a partire dalle prime aperture negli anni ’90), il cui Parlamento “ritiene indispensabile sviluppare un dialogo rispettoso e aperto […] cui partecipino i paesi membri delle Nazioni Unite di tutte le regioni del mondo” e “incoraggia gli Stati membri a impegnarsi in modo costruttivo, in partenariato con i Paesi terzi, […] per garantire che i diritti umani relativi all’orientamento sessuale e all’identità di genere siano pienamente rispettati nell’Unione europea e nei Paesi terzi” [ris. 28/09/2011]. In realtà un ruolo pionieristico l’ha ricoperto pure la Corte europea dei diritti dell’uomo, organismo del Consiglio d’Europa, fin dagli anni ’80, come avremo modo di vedere in un prossimo articolo.
SI tratta di un riconoscimento atteso e doveroso dato che il 6% degli europei e delle europee si identifica come LGBT+, con un altro 10% che si definisce non esclusivamente eterosessuale [Dalia Research, 2016].

Si badi bene che i parametri normativi appena menzionati non coprono ancora l’intero spettro delle identità LGBTQI, in quanto si fa riferimento solo a persone omo-bisessuali (fattore “orientamento sessuale”) e persone trans* (fattore “identità di genere”): non ci si è ancora spinti a includere espressamente nell’elenco anche le persone intersex (fattore “caratteristiche del corpo”) e le persone non binarie/non normative (fattore “espressione di genere”).

Per aiutare a far un po’ di ordine si può dire che i diritti delle persone LGBT+ spaziano molto, fino a ricoprire aree relative a diversi settori del diritto:

  • diritto antidiscriminatorio (protezione a livello costituzionale di orientamento sessuale e identità di genere, norme di tutela sul luogo di lavoro, norme sul pari accesso a beni e servizi, esistenza di un piano nazionale per il contrasto all’omo-transfobia, riconoscimento dell’intersessualità);
  • diritto di famiglia (uguaglianza matrimoniale, presenza di unioni civili, patti di coabitazione e simili, inesistenza di limitazioni costituzionali al matrimonio, possibilità di adozione congiunta e adozione del figlio del partner, automatico riconoscimento del genitore non biologico, accesso alla fecondazione assistita, possibilità per la persona trans di sposare una persona dell’altro genere);
  • repressione delle manifestazioni d’odio (punizione dei reati motivati dall’orientamento sessuale e l’identità di genere della vittima, contrasto ai discorsi d’odio verso le minoranze sessuali, predisposizione di protocolli per ricevere e indagare le denunce);
  • riconoscimento legale del genere e tutela dell’integrità corporea (previsione di misure legali e procedure amministrative snelle per la rettifica del genere sui documenti, cambio del nome anagrafico con il nome sociale, non necessarietà dell’intervento chirurgico di modifica dei caratteri sessuali o di una diagnosi di disordine dell’identità o altra valutazione medica);
  • libertà di assemblea ed espressione (non ostruzionismo statale a eventi pubblici, possibilità di registrare associazioni dichiaratamente a favore di persone LGBT+, assenza di leggi che limitino l’espressione di opinioni nello spazio pubblico e sui media);
  • diritto d’asilo (accettazione di domande di protezione motivate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere del richiedente).

Da questi indici emerge come le cosiddette “minoranze sessuali” vogliano e giustamente pretendano di poter pienamente autodeterminarsi, in relazione al proprio corpo, alle proprie scelte affettive e genitoriali, alle manifestazioni pubbliche e private della propria identità, senza subire intromissioni o limitazioni da parte dello Stato (o altri consociati).
L’avanzamento della frontiera dei diritti, riguardando così tante aree e sotto-aree, è avvenuto a geometria variabile negli stessi Stati occidentali (Europa, Americhe, Australia), e ogni Stato ha seguito le proprie vie e i propri tempi per raggiungere tali traguardi. Ciascuno di essi meriterebbe di essere studiato a parte.
Con molta approssimazione si può dire che, a partire da una mobilitazione “dal basso”, si è pervenuti ad un riconoscimento “dall’alto”: la società civile, le/gli attiviste/i hanno smosso le acque, facendo uscire queste questioni da una coltre di invisibilità e intolleranza, stimolando giudici e parlamentari a prendere l’iniziativa.

Stando ad una classifica redatta da ILGA [Rainbow Europe 2019], la piccola Malta risulta essere il Paese in Europa (e al mondo) con la legislazione più avanzata e tutelante, seguita da Belgio, Norvegia, Regno Unito, Finlandia; l’Italia si attesta ad uno sconfortante 32° posto.
Queste classifiche, però, vanno prese con le pinze perché fotografano la situazione da un punto di vista meramente giuridico (andando a vedere cosa c’è scritto nelle leggi e nella giurisprudenza), senza considerare le attitudini della popolazione e delle istituzioni in carica verso le persone LGBT+ (andando a vedere se la vita quotidiana di costoro si svolge in modo sereno).
Non dobbiamo farci ingannare: pur in presenza di istituti come le unioni civili o la rettifica del genere anagrafico, lo stigma sociale e culturale verso le persone non etero-cis-normative può essere molto forte. Per un quadro più completo sono da tenere in considerazione altre fonti come ricerche sociali, statistiche e sondaggi, rappresentazioni mediatiche, dichiarazione di esponenti politici, prassi amministrative, e via discorrendo.

Avremo modo di vedere come questa condizione strutturale che osserviamo nei cosiddetti Paesi del Nord del mondo, quando si tratta di persone migranti, diventa ancora più delicata e generativa di tensioni e di cattive prassi impattando lo standard di tutela approntato per coloro che, a seguito di una traiettoria di migrazione transnazionale da un c.d. Paese del Sud del mondo, chiedono asilo in un Paese dell’Unione europea perché LGBT+.

Alberto C.
Boramosa