Cosa significa militare per la causa dei e delle migranti LGBT+? Quali sono le tensioni esistenti all’interno degli spazi associativi LGBT+? È possibile immaginare pratiche di confronto e di solidarietà che non riproducano gli schemi e le violenze delle politiche istituzionali? Elementi per una riflessione in progress.
Non è raro che l’associazionismo LGBT+ venga narrato come un ambiente fortemente diviso e conflittuale. Certo, i conflitti e le divisioni sono una presenza costante del mondo dell’associazionismo, non solo LGBT+ d’altronde.
Tuttavia tali divisioni sono anche espressione di una pluralità di visioni, di immaginari, di progettualità e anche di soggettività che distribuiscono la loro diversità su molteplici linee. La geografia dell’associazionismo LGBT+, per esempio, racconta modalità diverse e specifiche di fare attivismo, in funzione del territorio e delle realtà locali, o delle configurazioni politiche e culturali. Lo stesso posizionamento politico dei gruppi, dei collettivi e delle persone che abitano gli spazi associativi taglia l’associazionismo LGBT+ trasversalmente, descrivendo un tracciato che vede una militanza critica e oppositiva, legata a pratiche contestatarie, scontrarsi spesso con una militanza più portata alla conciliazione e alla negoziazione con le istituzioni e con altri attori sociali e politici, una militanza cosiddetta mainstream.
Le soggettività che portano i progetti associativi caratterizzano questo paesaggio con forti contrasti. L’associazionismo trans, o quello bisessuale, o il più “tradizionale” associazionismo gay, e – in questo periodo storico specialmente – un certo associazionismo lesbico, praticano forme di attivismo diverse e spesso conflittuali, talvolta inconciliabili.
All’interno di questo universo di attivismo LGBT+, i gruppi e le associazioni che si mobilitano per la causa dei migranti LGBT+ costituiscono un’altra forma di militanza, con le sue specificità, con le sue esigenze e con i suoi orientamenti politici e progettuali.
Questo sito nasce da un’idea, da un progetto, ma prima ancora da un’esperienza di lavoro interassociativo tra gruppi che lavorano con i migranti LGBT+ tra Verona, Vicenza e Padova. Seppur vicini perché a due passi di autostrada, i tre gruppi che hanno deciso di collaborare in questo progetto provengono da contesti profondamente diversi. Essi sono cioè portatori di un punto di vista associativo e militante che è il risultato di una specifica configurazione locale e di modalità di rapportarsi al contesto nazionale più ampio altrettanto specifiche.
Un punto in comune di queste realtà è di essere nate o di continuare a porsi all’interno di associazioni LGBT+ generaliste (Arcigay, soprattutto) e di essersi poi autonomizzate o, nel caso di quelle che rimangono all’interno di quella cornice, di occupare una posizione relativamente autonoma. Le ragioni di questo posizionamento atipico non stanno tanto nelle idiosincrasie personali, come spesso e a torto si pensa, bensì nel fatto che il lavoro di accoglienza, di accompagnamento, di solidarietà, ma anche di costruzione collettiva e comunitaria con le persone migranti LGBT+ implica uno spostamento dalle pratiche tradizionali del lavoro associativo.
Lavorare con persone migranti in contesto militante significa dismettere le categorie e le narrazioni che strutturano l’attivismo LGBT+, e in particolare le parole-chiave che in questi ultimi anni hanno centrato la costruzione delle politiche di movimento dell’associazionismo LGBT+: visibilità, orgoglio, diritti.
Non che queste parole non contino, non che la causa dei migranti LGBT+ non sia una questione di diritti, di visibilità e di orgoglio. La questione è piuttosto che l’incontro con una ragazza maliana, con un ragazzo pakistano, con un gay nigeriano o una lesbica srilankese, non segue il copione degli scenari ideal-tipici che la storia dei movimenti LGBT+ ha prodotto in Italia. L’incontro con una persona straniera che porta con sé un’altra storia, altri copioni e altre narrazioni, altre appartenenze e altre identità, altre eredità e soggettività altre, è l’incontro con una radicale diversità che le nostre categorie non sanno raccontare, o non del tutto.
Abitare gli spazi dell’associazionismo LGBT+ con persone migranti significa dover sospendere la narrazione della visibilità, dell’orgoglio e dei diritti per lasciare spazio alla costruzione di nuove narrazioni; significa rendersi disponibili a raccontarsi ex novo e non solo ad ascoltare le “storie” che si presentano ai nostri sportelli. Il lavoro associativo con persone migranti LGBT+, all’interno degli spazi dei collettivi e delle comunità LGBT+, in un certo senso, segue delle linee di attivismo diverse e non sempre convergenti, delle linee che costruiscono altre reti e altre relazioni.
Per questo è possibile definire una causa dei migranti LGBT+ che, certamente, si colloca nella cornice dell’attivismo LGBT+, ma che crea anche nuovi spazi traversali, come quello che si sviluppa sul fronte dell’autostrada A4 tra Verona, Vicenza e Padova, in occasione di scambi e di incontri che ci hanno portato a immaginare e a praticare un lavoro interassociativo che faccia esistere la causa dei migranti LGBT+, nel contesto dei nostri territori, ma anche all’interno dello spazio dell’attivismo LGBT+, dove spesso le persone migranti diventano oggetti di uno sguardo “antropologico” – di quell’antropologia missionaria di altri tempi che nel gusto dell’esotico nascondeva il disgusto dell’essere primitivo, che nell’accogliere l’umanità ritardata ambiva a civilizzare e convertire alla cultura buona e giusta.
Spesso, all’interno delle associazioni che frequentiamo, noi volontarie e volontari dei gruppi migranti LGBT+ siamo le uniche persone ad avere un contatto con questi soggetti “estranei”, le uniche a parlare con loro, a conoscerle, ad avere un rapporto di scambio, di dialogo e di conoscenza. Spesso, ci viene chiesto di proporre eventi in cui le persone migranti raccontino a “noi” le loro storie, si raccontino e si espongano, e questo processo diventa quasi un rito di passaggio: senza “storia” nessun riconoscimento. Chi conosce la procedura di richiesta d’asilo sa che questo è esattamente lo stesso scenario che le persone migranti in arrivo sul territorio italiano si trovano ad affrontare: senza “storia” credibile nessun riconoscimento, nessun diritto.
E questo testimonia di come tale richiesta costituisca in realtà l’espressione di un particolare rapporto alle persone straniere, un rapporto etnocentrico, in cui “noi” siamo la misura della “loro” alterità; in cui “noi” siamo i giudici della “loro” legittimità.
Anche nelle associazioni spesso ci si aspetta, anzi si pretende – con tutte le buone intenzioni, ça va sans dire – che queste persone si rendano visibili con orgoglio, che lottino per i “loro” e i “nostri” diritti, che scendano in piazza per aprire il corteo dei Pride, che offrano il loro vissuto a prova della loro legittima presenza. In questi mesi di programmazione delle attività dei Pride, arrivano le prime richieste, insistenti, di partecipazione migrante ai vari eventi e alle varie festività. E, forse, è arrivato il momento di dire no a queste richieste, che dovrebbero essere fondate da un reale lavoro di costruzione, di pensiero e di riflessione collettivi. Proprio perché il nostro lavoro è mosso da un desiderio politico di trasformazione e di cambiamento, ci rifiutiamo di riprodurre nelle nostre pratiche atteggiamenti di potere che riducono le persone migranti a oggetti del nostro agire militante.
Piuttosto, il nostro attivismo consiste nel far esistere la causa dei migranti LGBT+, per trasformare i nostri spazi associativi e di movimento, per trasformare in maniera più ampia la causa LGBT+, e ancora, per inventare nuove pratiche oblique, storte, diverse, altre.
Massimo P.
Sportello Migranti LGBT – Arcigay Verona