Storia di Marina, una coraggiosa donna trans migrante che dopo anni di difficoltà e sfruttamento riesce a riprendere in mano la sua esistenza.
“Io fin da piccola mi sono sempre sentita così, volevo giocare con le bambole, usavo delle stoffe per fare abiti femminili… una gonna, un vestitino”.
Che c’è di male a voler seguire la propria identità di genere? Tuttavia il senso comune vuole che se si nasce con connotati maschili si deve crescere come uomini, e con connotati femminili si deve crescere come donne. Troppa è ancora la confusione tra il fattore “sesso” (legato al dato biologico) e il fattore “genere” (legato al dato socio-culturale e agito in modo originale da ciascuno\a), che secondo i\le più devono necessariamente convergere, pena il venire ascritti\e a categorie quali l’anormalità, la patologia, l’abominio, lo scherzo della natura.
Tanto più l’ordine di genere – ovvero l’ambito organizzato di pratiche umane e relazioni sociali che definisce le forme della maschilità e della femminilità, secondo la definizione di R. Connell – è rigido ed escludente verso coloro che hanno comportamenti difformi dalla norma sociale, quanto più queste persone “devianti” saranno spinte ai margini della società, esposte a molteplici forme di abuso e compromesso che ne mortificano la dignità. Questo accade agli antipodi del mondo così come nella “civile Italia”.
Chi scrive è un operatore socio-legale di Boramosa, associazione di Padova che offre supporto a persone migranti LGBT+. In questi anni il nostro gruppo è venuto a contatto con decine di storie di (stra)ordinaria sofferenza e lotta per trovare il proprio posto nel mondo, quasi sempre attraverso itinerari di viaggio perigliosi, per varcare frontiere fisiche ma soprattutto simboliche. Tanto le prime quanto le seconde si stanno ispessendo, vuoi per i pericoli delle rotte di migrazione forzata e le politiche governative dei Paesi europei, vuoi per i discorsi e le pratiche d’odio verso chi porta sulla pelle i segni dell’alterità e la difficoltà di ricollocarsi in un nuovo contesto di vita.
In occasione del Transgender Day of Remembrance (celebrato ogni anno il 20 novembre), vorrei raccontarvi la storia della nostra amica Marina (nome di fantasia), donna transgender di provenienza brasiliana.
La sociologa Emanuela Abbatecola, nel suo recente libro intitolato “Trans-migrazioni: lavoro, sfruttamento e violenza di genere nei mercati globali del sesso”, dipinge vividamente la situazione di violenza sistemica e privazione di opportunità a cui sono sottoposte le persone di genere non binario nel Paese carioca, noto per il triste primato mondiale di (brutali) uccisioni di donne trans, localmente chiamate travestis.
Per dare una definizione “le travesti in Brasile sono uomini biologici che si vestono da donna e fanno del loro meglio per rendere femminile il loro corpo attraverso l’uso di silicone e di ormoni, ma non possono essere semplicemente definite transessuali, non solo perché non necessariamente interessate alla riassegnazione chirurgica del sesso, ma anche perché agli occhi della società brasiliana sono un gruppo sociale distinto e riconosciuto, la cui identità è oggi fortemente legata al lavoro sessuale”.
Difatti bisogna tristemente constatare che per le donne trans “il mercato del sesso sembra ancora essere l’unico sbocco possibile a fronte di una società ancora chiusa al cambiamento e discriminante rispetto a chi viola il tabù di un’identità di genere non conforme al corpo biologico”.
La maggior parte delle travesti proviene da classi sociali non privilegiate e detiene bassi livelli educativi. Sono perlopiù “donne povere, poco istruite e non-bianche, “imprigionate” in corpi maschili nei quali non si riconoscono, in una società che non le considera cittadine a pieno titolo”, donne con biografie difficili segnate dalla violenza e dal rifiuto da parte della famiglia d’origine.
Questi indicatori di vulnerabilità socio-economica e affettiva fanno di loro candidate perfette agli occhi di sfruttatori e sfruttatrici, che le avviano ad un percorso di prostituzione nazionale o transnazionale.
Marina stessa per molti anni è stata parte di un circuito di sfruttamento che ha premuto affinché lavorasse in strada, a suon di ricatti e prepotenze, con tutte le immaginabili asprezze che contraddistinguono questo tipo di realtà.
D’altronde la sua vita ha avuto un sapore acre sin da quando era un bebè, consegnato dalla madre ad un affollato orfanotrofio in un’area del Brasile rurale. Là non ha trovato carezze e figure educative empatiche, ma lavori d’orticultura e codici disciplinari di impronta cristiana. Là ha dovuto scoprire e navigare da sola il mare di incertezze e violenze derivanti dal suo atteggiarsi a bambina, impedendole pure di terminare gli studi.
A diciotto anni deve uscire dall’orfanotrofio: fuori trova la sua famiglia ad accoglierla, che nel frattempo aveva tentato di riapprocciarla. Per qualche tempo viene ospitata, ma i suoi comportamenti poco consoni per un (ai loro occhi) giovane uomo vengono notati e reputati come intollerabili. Iniziano per lei degli anni di vita per conto proprio, dove trova un suo equilibrio, lavorando e comportandosi con discrezione.
Dopo qualche tempo, un giorno viene avvicinata da una donna dai modi suadenti, che inizialmente l’accoglie in casa e le dà consigli e attenzioni, le stesse di cui era stata privata in infanzia. Di lì a poco la donna, dopo averla avviluppata a lei, la sottopone a dei ritocchi estetici – effettuati da una bombadeira con iniezioni di silicone – per renderla più “commerciabile” e la avvia alla prostituzione in loco, come aveva già fatto con altre ragazze trans. La donna ora gioca a carte scoperte: non è una benefattrice, ma una pappona (cafetina), dai modi collerici e aggressivi.
Dopo essersi fatta le ossa in strada, dove sia polizia che clienti la trattano con sprezzante disumanità, le viene proposta l’occasione della vita: andare in Italia, rappresentata alle travesti come un luogo magnetico dove si possono guadagnare molti soldi, ma anche dove gli uomini adorano le donne trans e sono gentili. Basta poco: una volta saldate spese di trasferimento e debito di “gratitudine” potrà vivere la sua vita in modo svincolato e sereno.
Il resto è una triste storia che accomuna tante come Marina: lunghe notti di passi che risuonano sui marciapiedi. Marina, non senza difficoltà e angustie – che ometto per economia espositiva ed esigenze di riservatezza – riesce ad affrancarsi dalle pastoie della tratta e a presentare domanda di protezione internazionale. Si trasferisce lontano dai luoghi di sfruttamento e faticosamente ricomincia una nuova vita a Padova.
Marina gradualmente rifiorisce grazie al paziente lavoro di affiancamento effettuato da Boramosa di concerto con Associazione Mimosa/Cooperativa Equality, partner del N.A.Ve. (Network Antitratta del Veneto) – a cui va il merito di aver stabilito ha stabilito un primo contatto con lei, permettendo l’emersione e la presa in carico del suo caso – e con la cooperativa O. – a cui va il merito di averla ospitata in accoglienza CAS curandosi delle sue esigenze specifiche e orientandola in merito a scuola, lavoro e salute. Ai rispettivi operatori e operatrici va dunque la mia riconoscenza.
Marina ha conseguito un diploma presso un CPIA (corrispondente alla “licenza di scuola media”) e nel contempo ha svolto un tirocinio per un lavoro per cui si sente portata.
Dulcis in fundo, la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Padova le ha riconosciuto lo status di rifugiata. Marina non può infatti rientrare in Brasile, dove le donne trans subiscono quotidianamente violazioni sistematiche dei diritti umani, in quanto appartenenti ad un “particolare gruppo sociale” perseguitato ai sensi della Convenzione di Ginevra sul diritto di ottenere rifugio in un Paese terzo. Per giunta lei è ex vittima di tratta, priva di legami familiari e amicali, senza un soldo, il che rende la sua posizione ulteriormente precaria.
Scuola, lavoro e documento? Un successo che un anno fa sembrava inverosimile. Ma può un permesso di soggiorno di cinque anni fare da contraltare ad una vita di prevaricazioni? Difficile a dirsi.
La vita continua a non essere semplice per lei. Marina dice che in centro città non ci vuole andare perché è oggetto di approcci volgari, tanto da uomini italiani che stranieri. L’unica amica a cui è rimasta legata continua a lavorare in strada. Sui documenti che la riguardano la casella “sesso” presenta ancora la letterina “M”, che di fatto vuol dire essere costretta ad autodichiarare la propria identità di genere ogni volta che è chiamata ad esibirli.
Eppure in Italia c’è bisogno di raccontare storie di riuscita come questa. Troppe donne trans continuano a lavorare in strada, in larga parte senza documento e sotto costrizione. Tutte loro meritano un riconoscimento, un alloggio e un lavoro, ma soprattutto una ritrovata dignità che le faccia emergere la loro estrosa umanità, rimasta in penombra sotto la coltre di abiezione che è stata gettata su di loro.
Certo, noi l’abbiamo guidata in questo percorso, ma a Marina va il merito di questi successi: ha saputo mobilitare resilienza e perseveranza, delle risorse interiori che le sono proprie, nonostante tutto.
Forse un giorno anche lei troverà la voglia o la necessità per parlarne pubblicamente, facendo a meno dell’interposizione di terzi che parlino per conto suo, come sto facendo io ora. O forse non lo farà, lasciando cadere nell’oblio questo passato doloroso, scelta degna di pari rispetto.
In ultimo Marina è entrata in un progetto SPRAR/SIPROIMI in un’altra città, dove potrà essere seguita da personale preparato, per stabilizzarsi ulteriormente e capire cosa fare del suo futuro.
Per avviami alle conclusioni, devo riconoscere come i tanti incontri e confronti fatti negli anni passati con persone richiedenti asilo e rifugiate mi hanno cambiato la vita, aiutandomi a fare un’operazione di ricentratura rispetto alla mia visione del mondo.
L’incontro con Marina è stato tra i più significativi: le sono riconoscente perché è stato un catartico bagno d’umanità. Ed è per me un onore pensare che Marina provi lo stesso sentimento di calorosa gratitudine, e amicizia, per me e tutte le persone che hanno creduto in lei e le vogliono bene.
Alberto C.
Boramosa
Per avere qualche altro elemento di contesto su storie simili a quelle di Marina, oltre al testo di Abbatecola, si rimanda a: